Sogno di mezza estate e di come il passatore mi abbia salvato la vita (o almeno credo)
Nonostante per ora possa solo fare attività in piscina (17 uscite in piscina negli ultimi 20 giorni, pausa oggi. Direi bene, difatti sento già i benefici oltre ad avere preso un po’ di colorito) ancora passa nella mia testa quando, un mese e mezzo fa, gli amici podisti affrontavano il passatore e io non ero riuscito nemmeno a poter stare seduto in piazza del popolo a faenza per vederli arrivare. Ma il sogno di mezza estate resta, rifare prima o poi la 100km del Passatore, quanto sia realizzabile in pratica, importa poco. Credo che la voglia di farlo e la determinazione possano fare la differenza, forse, magari no, ma non lo posso sapere. Ma se saranno quelle a fare la differenza, meglio tenerle pronte e allenate. Nel frattempo rimembro il passatore 2010, le grandi emozioni che mi ha dato, e la sensazione, che poi fu alla base della nascita dell’ispirazione per scrivere il mio libro, che grazie al passatore io possa avere avuto più forza e determinazione quando la sfida si è fatta diversa, ma non meno dura. Allora mi viene voglia di condividere la parte di corsa del capitolo primo, che non a caso riguarda proprio quella corsa, a fine maggio del 2010, durante la 100km del Passatore!
Vi lascio alla lettura, il libro in cartaceo è ordinabile all’indirizzo , ed in digitale presso:
Un cartello nel buio (tratto dal libro “Lo zen, la corsa e l’arte di vivere con il cancro”
È un buio che ingoia tutto, ma un buio sereno, non cupo. Non sono al buio come quando da piccolo ne ero spaventato; quando a ogni passo fatto in casa a luci spente avevo la sensazione palpabile di avere qualcuno che mi stesse camminando dietro.
Ma ora dietro non c’è nessuno, e nemmeno quella sensazione.
L’odore di bagnato e l’asfalto che affidabile mi spinge avanti. Il prossimo passo sarà sommato esattamente a quello precedente e tutti i miei passi insieme faranno esattamente la distanza che voglio coprire, non mi posso sbagliare.
Sono forte. Mi sento forte. Ho voglia di continuare a sentirmi forte e dimostrare a me stesso che posso riuscire a usare la mia mente, per fare sì che questo fisico, la finestra che collega il mio io con questa realtà , possa fare una cosa forse impensabile, o almeno per me fino a ieri e tutt’ora per il senso comune.
La sfida l’avevo preparata duramente, sapevo di fare un salto nel buio, non sapevo se e quando avrei dovuto alzare bandiera bianca; sapevo però che per me era una sfida a due possibili risultati: arrivare in fondo o non arrivarci.
Tanti allenamenti: da stanco, da fresco, da felice, da deluso, motivazioni alte e momenti di demotivazione. Uscite veloci per tornare in fretta a lavorare, uscite lunghe per prepararsi a qualche cosa di simile alla grande sfida.
Neve, neve, neve, tanta neve, ma anche pioggia e fango. Imparare a lottare era stato naturale.
Questi mesi di preparazione mi avrebbero poi fatto capire che una strada lastricata e pulita è la via maestra per il fallimento.
Tanti chilometri da stanco. Dovevo fare tanti chilometri e fatti tanti chilometri, poi, dovevo farne altri. Dovevo arrivare a quel cartello, che sarebbe sbucato dal buio ed essere pronto ad andare oltre, continuare ancora.
Avevo trovato ogni appiglio mentale per fare di più anziché di meno. La sfida che preparavo sarebbe stata un unicum: niente esperienza precedente per sapere con certezza che ero forte abbastanza, di fisico e di testa, per sentirmi pronto. Quindi si partiva con le gambe dure, aspettando fiduciosi che qualche chilometro di riscaldamento le avrebbe sciolte e si arrivava alla fine senza che quel momento fosse arrivato. Però, nel frattempo, un altro allenamento sarebbe stato fatto, e un altro mattoncino della propria preparazione fisica, ma soprattutto mentale, sarebbe andato al suo posto.
Fra alti e bassi, momenti di esaltazione e momenti passati a testa bassa, concentrati sull’unico obiettivo immediato, quello di mettere la gamba sinistra davanti a quella destra e viceversa, ero arrivato in qualche punto non troppo lontano da quel cartello.
Era un po’ che lo aspettavo e quando sbucò, all’improvviso dal buio, la gioia fu tanta. Una ondata di pensieri, tutti gli allenamenti, tutta la fatica fatta, pensando a quel cartello, correndo un chilometro in più anziché in meno, perché poi quando sarebbe arrivato io avessi potuto continuare.
Sono a Brisighella, un piccolo borgo medioevale sulle prime colline romagnole. In centro paese passo il rilevamento di tempo che pensavo essere dei novanta chilometri dalla partenza di Firenze, cioè dieci chilometri dall’arrivo di Faenza. Gioia pura nel correre finalmente la Cento Chilometri del Passatore, una gara mitica nel mondo del podismo che non considera fuori di testa chi si cimenta su distanze così lunghe. Le gambe girano veloci, sono indistruttibile, anzi mi sento indistruttibile. Sono fermamente convinto che se mi venisse incontro un Tir che occupa tutta la carreggiata non avrei bisogno di evitarlo, potrei tirare dritto. Sento che niente mi può fermare.
Al passaggio per Brisighella noto il cronometro. Sono passate sette ore e diciassette minuti dalla partenza. Lascio un piccolo spazio alla vena competitiva, che ovviamente controlla i tempi. Provo ad aumentare un po’ il ritmo, le gambe rispondono ed è una ulteriore iniezione di energia. Mi convinco di poter correre gli ultimi dieci chilometri in circa quarantatré minuti che mi permetterebbe di terminare i cento chilometri in meno di otto ore di corsa.
È importante sentirsi forti e magari perché no a tratti anche indistruttibili. Ma dopo due chilometri dal paese vedo un cartello che arriva: novanta chilometri!
Contraccolpo. L’imprevisto è sempre dietro l’angolo.
Non è gravissimo in questo caso. Erano ottantotto chilometri fatti e non novanta; un filo di delusione mentale c’è, ma va bene così. Una piccola lezione a un prezzo in fondo molto basso. Sarò più paziente la prossima volta, devo tenere in mente indistruttibile, devo esserlo. Non penso più che potrò chiudere la gara in meno di otto ore, ma questa sfida è talmente oltre i valori cronometrici che non cambierà la sostanza.
L’odore della fine, l’idea di arrivare fino in fondo, il salto nel buio è una scommessa vinta. Arrivo a Faenza. I miei allenamenti, le mie fatiche, la cura del fisico, l’aiuto degli amici, il supporto e tifo di chi era per strada. Tutto insieme mi ha permesso di esserci, di godere di un momento di felicità pura. Felicità vera, soddisfazione piena. Sapevo cosa avevo fatto in termini di podismo, ma avevo il sentore di avere fatto, soprattutto, qualche cosa di rilevante anche per me, per la mia vita, quella presente e quella futura.